Le migrazioni delle donne

Le migrazioni delle donne come ristrutturazione delle relazioni di genere

per Laura Ma Agustín , dicembre 2003

Mentre si continuano a diffondere immagini vittimizzanti delle migranti che lavorano in Europa nell’industria del sesso, tante donne partono per propria scelta e trovano nella prostituzione e nelle altre offerte dell’industria del sesso opportunità di emancipazione o altre mete difficilmente raggiungibili in patria.

(Pubblicato per la prima volta in: Development, Society for International Development, Rome, 45.1, 2002.) Trad. Ada Trifirò, terrelibere.org

Miti sulle migrazioni

Quando la gente emigra, c’è sempre una tendenza a idealizzare la casa. Si evocano calde immagini e famiglie unite, oggetti domestici semplici, rituali, canzoni, cibo[1]. Molte feste religiose e nazionali, in varie culture, materializzano nella memoria concetti come quello di ‘casa’ o ‘famiglia’, di solito attraverso immagini di un passato folcloristico. In questa prospettiva, l’emigrazione viene considerata come una risorsa estrema o un atto disperato e i migranti come privati del luogo cui ‘appartengono’. Però per migliaia di persone al mondo, il luogo dove sono nati e cresciuti non è un luogo desiderabile e ove sia possibile sviluppare progetti di vita più adulti o ambiziosi e trasferirsi in un altro luogo costituisce una soluzione convenzionale- non traumatica.

Come si produce la decisione di partire? Terremoti, conflitti armati, malattie o la mancanza di cibo spingono alcune persone a situazioni che non sembrano lasciare loro abbastanza libertà di scelta o tempo per ‘processare’ le opzioni: a volte questa persone vengono chiamate rifugiati. La decisione di un uomo scapolo di partire si intende generalmente come qualcosa che si evolve nel tempo e come prodotto normale della sua ambizione maschile di migliorare la propria esistenza mediante il lavoro: in questo caso vengono chiamati migranti. Infine, ci sono donne che cercano di fare la stessa cosa.

Ricerche in un luogo marginato: la geografia dell’esclusione

Ho lavorato per molto tempo in diversi paese dell’America Latina e del Caribe nel campo dell’educazione popolare, in programmi dedicati all’alfabetizzazione, la prevenzione dell’AIDS, la promozione della salute e la coscientizzazione. La mia preoccupazione sulla differenza che esiste tra quello che gli attori sociali del primo mondo (governativi, non governativi, attivisti) dicono sulle donne migranti e quello che queste ultime dicono su loro stesse mi ha portato a studiare e ad esprimermi su questi temi. Mi sono collocata intenzionalmente alla frontiera tra questi due gruppi: i migranti e gli attori sociali, in Europa, dove gli unici lavori generalmente disponibili per le donne sono nei servizi domestici, di cura e sessuale. Il mio lavoro problematizzava tanto gli attori sociali quanto le migranti, così che passavo molto tempo in bar, case, uffici, bordelli, veicoli di unità di strada (‘outreach’) e poi nella strada, nelle sue multiple versioni.

I dati su quello che dicono le migranti provengono da ricerche mie e da quelle di molti altri in tanti paesi dell’Unione Europea, America Latina, Europa dell’Est, Asia e Africa. I dati su quello che dicono gli agenti sociali provengono da mie ricerche condotte con persone che lavorano nella problematica della prostituzione, ivi inclusi i lavori da me realizzati come valutatrice dei progetti per la OIL e della Commissione Europea.

Nonostante da quasi 20 anni ricercatori e personali di ong lavorano con prostitute migranti in Europa, la pubblicazione delle loro conclusioni rimane fuori delle riviste e della stampa delle correnti generali. La maggioranza di coloro che si sono riuniti e hanno parlato con prostitute migranti non sono né accademiche né scrittrici. Il lavoro di campo e di strada viene concettualizzato in maniera diversa rispetto alla ‘ricerca’ e viene generalmente finanziato come prevenzione dell’AIDS.

Questo significa che i prodotti pubblicati dalle loro ricerche si riducono in generale a informazione sulla salute e sulle pratiche sessuali; il resto dell’informazione raccolta, di natura molto diversa, rimane inedita. Alcune delle persone che lavorano in questi progetti hanno l’opportunità di incontrarsi e scambiare l’informazione raccolta, ma non sono la maggioranza. Recentemente, è emerso un nuovo tipo di ricercatore, in maggioranza giovani donne accademiche, sociologia o antropologhe, che si occupano di temi migratori. Queste ricerche vogliono rendere giustizia alla realtà migrante che le circonda, che vedono composte tanto di lavoratrici sessuali quanto di impiegate domestiche e badanti. La maggior parte di queste ricerche utilizzano storie di vita e alcune hanno iniziato ad essere pubblicate, ma ancora questo tipo di lavoro non è riconosciuto. La stigmatizzazione opera in molti modi, tra i quali silenziare i risultati che non si inseriscono nei discorsi egemonici. La critica delle correnti dominanti sostiene che ‘l’informazione non è sistematizzata’ o che ‘non ci sono dati di fatto’. Nella mia ricerca cerco proprio quei risultati ‘marginati’.

Le letture sui viaggi

E’ noto che nell’anno 2001 si continua a considerare le donne come spinte, obbligate, costrette o forzate, quando partono dai loro paesi per la stessa ragione degli uomini: per progredire mediante il lavoro. Però l’idea della donna come parte essenziale della casa, perfino come l’incarnazione stessa della casa, è così radicata che le viene negato sistematicamente il protagonismo che implica la decisione di emigrare. Così ha origine la patetica immagine di donne innocenti strappate dalle loro case, costrette ad emigrare e perfino sequestrate o vendute come schiave. Queste sono le immagini che oggigiorno seguono quanti si recano nei luoghi ove gli unici lavori remunerati disponibili si trovano nel servizio domestico, nel lavoro di cura e nell’industria del sesso[2]. La lettura della tratta o del traffico delle donne suppone che per le donne è meglio rimanere a casa piuttosto che abbandonarla e mettersi in ‘problemi’; si considera che i ‘problemi’ danneggeranno irreparabilmente le donne (che sono messe assieme ai bambini), mentre ci si aspetta che gli uomini affrontino e superino i problemi in modo rutinario. Però, se uno dei nostri obiettivi è trovare una visione nella quale i poveri non siano costruiti meramente come vittime, dobbiamo riconoscere che certe strategie che ci sembrano poco gratificanti possono essere utilizzate con esito da altre persone. In questo saggio, pertanto, non si sta trattando il tema del se il lavoro domestico possa arrivare ad essere piacevole o se la prostituzione debba essere accetta come un ‘lavoro’[3].

Non c’è ragione per la quale un brutto inizio o dei momenti tristi, distruttori o perfino tragici nelle migrazioni della gente in cerca di lavoro debbano marcarli per sempre o definire tutta la loro esperienza di vita. La relativa mancanza di potere in una tappa della migrazione non deve essere permanente; anche i poveri hanno ‘identità multiple’ che cambiamo durante i loro percorsi di vita, vite che sono composte di diverse tappe, necessità e progetti. Insistendo sulla strumentalità dell’emigrazione in condizioni che sono lontane dall’essere ideali, non si vuole negare l’esistenza delle esperienze più nere. Gli abusi degli agenti che vendono forme di entrata al primo mondo si verificano con migranti che lavorano nel servizio domestico, le maquiladoras, le miniere, l’agricoltura e l’industria del sesso, sia che i migranti siano donne, uomini o transessuali. Fortunatamente, le storie più tragiche non costituiscono la realtà della maggior parte della gente.

¿Sradicate o mal situate? Questione di volontà e di ‘opzione’

Ricerche realizzate tra migranti lavoratrici domestiche e sessuali rivelano poche differenze sostanziali nei loro progetti migratori e dimostrano che le migrazioni che possono essere iniziate con uno sradicamento (la sensazione di essere state spinte via, di non aver scelte ragionevoli) non sono destinate ad essere sempre esperienze tristi. Anche i più poveri e quelle che vengono praticamente ‘vendute’ o ‘ingannate’ cercano e trovano luoghi ove poter costruire positivamente la loro vita: scappano, cambiano lavoro, apprendono a utilizzare amici, clienti, padroni e delinquenti. Cioè a dire, fanno lo stesso che altri migranti e, salvo che nel peggiore dei casi, riescono a raggiungere condizioni più soddisfacenti, che sia trovare una buona famiglia ove lavorare come domestica o un padrone di bar che la tratti bene o i contatti adatti per iniziare a lavorare in forma indipendente.

Le migrazioni non sono nemmeno motivate puramente da ragioni economiche. Esposte a immagini dei mezzi di comunicazione che presentano i viaggi per il mondo come fattori essenziali tanto per l’educazione come per il piacere, i migranti potenziali scoprono che i paesi del primo mondo sono luoghi moderni e comodi. Sono attratti dalla possibilità di conoscere gente di altri paesi. Non tutti i poveri decidono di emigrare e molti di quelli che lo fanno sono persone che hanno la volontà di farlo e che hanno il carattere adatto ad affrontare i rischi che comporta lo sradicamento per ‘trovare un posto nel mondo’.

L’esempio che porto qui è quello di donne e transessuali migranti in Europa, però le posizioni che li definiscono come ‘trafficati’ esistono in tutti i lati del mondo e questo è l’approccio prevalente degli organismi internazionali. Al momento, la maggioranza delle prostitute migranti in Europa provengono dall’Africa occidentale, America Latina, Europa dell’Est e dai paesi dell’ex Unione Sovietica. Mentre le collaboratrici domestiche hanno iniziato a unirsi al di là delle frontiere etniche per esigere il rispetto dei loro diritti basici, le lavoratrici sessuali non lo hanno fatto, rendendo impossibile inquadrarle nell’ambito delle migrazioni tradizionali, nelle quali si formano le associazioni come tappa essenziale dell’insediamento. A causa di vari motivi sociali e legislativi, tra i quali spiccano le politiche repressive della polizia e delle autorità di immigrazione di tutta Europa, le prostitute tendono a continuare a spostarsi, andando da città in città e di paese in paese[4]. Questo modo di vita itinerante comporta che si instaurino relazioni molto particolari con il ‘luogo’ e impedisce loro di fare quello che si suppone ‘debbano’ fare, stabilendosi in un luogo e convertendosi in buone cittadine (subalterne) (il popolo ROM soffre lo stesso impedimento). Mentre il nomadismo si considera romantico quando si tratta di popoli lontani (è il caso dei beduini), in Occidente si trasforma in un problema sociale.

Coloro che scrivono sulle migrazioni e le diaspore mantengono un silenzio quasi assoluto rispetto alle prostitute migranti, sebbene potrebbero essere studiate come audaci ‘attraversa-frontiere’ che arrivano tipicamente (e ripetutamente) con poca informazione, bagaglio o conoscenza della lingua locale. Però, gli unici aspetti delle loro vite che vengono trattati (da parte di tutti, non solo da parte delle lobby contro la prostituzione) sono quelli della vittimizzazione, marginalizzazione e del loro presunto ruolo nella trasmissione dell’AIDS, ingiustizie che riproducono la stigmatizzazione. Tuttavia, mi azzarderei a dire che se fossero gli uomini ad usare in grandi numeri la prostituzione come strategia per entrare in Europa e ottenere una buona paga, tale strategia sarebbe considerata come un atto creativo e non verrebbe rappresentata costantemente come una tragedia.

Il piacere dei margini

Un elemento fondamentale sul quale si basa questa posizione generalizzata ha la sua radice nell’assunto che il corpo delle donna è soprattutto un ‘luogo sessuale’. Secondo questo assunto, le esperienze e gli organi sessuali delle donne sono elementi essenziali della loro autostima. Per quanto questo concetto possa essere vero per alcune, non lo è per tutte e la utilizzazione del corpo per ottenere un guadagno economica non risulta né perturbatore né tanto importante per molte prostitute, le quali generalmente manifestano che la prima settimana di lavoro è stata per loro difficile però che dopo si sono adattate[5]. Alcuni teorici suppongono che qualcosa come l’anima o il vero io si trova ‘alienato’ quando si intrattengono relazioni sessuali al di fuori del contesto dell’amore e che le donne restino irrimediabilmente segnate da questa esperienza, però sono solo ipotesi moralizzanti impossibili da comprovare. Alcune donne si sentono così e altre traggono piacere dalla prostituzione, il che significa solo che non esiste un’unica esperienza corporale condivisa da tutti: un risultato non tanto sorprendente, dopo tutto. Ad ogni modo, anche le prostitute alle quali non piace dicono di farlo perché è migliore di molte altre cose che nemmeno piacciono loro; apprendere ad adattarsi alle circostanze e ignorare gli aspetti sgradevoli del lavoro è una strategia umana normale.

Nella sentimentalizzazione che si produce intorno ai ‘migranti sradicati’, vengono dimenticate le tante disgrazie che possono aver lasciato. Molte donne, omosessuali e transgender fuggono da pregiudizi di provincia, lavori senza prospettiva, strade pericolose, padri autoritari e fidanzati violenti. La casa può anche essere un luogo noioso e soffocante, come lo dimostra la gran quantità di locali di intrattenimento che si trovano fuori casa. In molte culture del terzo mondo, solo gli uomini hanno il permesso sociale di godere di questi piaceri, di occupare questi spazi, mentre in Europa tutti possono farlo. Coloro che lavorano nella prostituzione hanno anche una vita privata, vanno al cinema, in discoteca, al ristorante, ai concerti, festival, feste parrocchiali e parchi. Il loro desiderio di dimenticare il lavoro e di essere persone convenzionali non è diverso da quelli degli altri; nel quadro degli spazi urbani si convertono in flâneurs e consumatori come gli altri.

Construzioni sociali del ‘luogo’ delle prostitute

Vari progetti di ONG lavorano con prostitute migranti in Europa e vorrebbero stimolare la loro autorganizzazione in difesa dei diritti basilari[6]. Però questi progetti richiedono inevitabilmente che i soggetti si identifichino come prostitute e pochissimi lo fanno; preferiscono identificarsi come migranti di Cali o Benin City o Kherson che si dedicano temporaneamente al lavoro sessuale come mezzo per raggiungere certi risultati. Questo significa che non sono interessate a questioni di identità quanto al fatto che si permetta loro di continuare a guadagnare denaro nel modo in cui lo stanno facendo, senza essere aggredite o violentate, da un lato o senza suscitare pena e essere incastrate in progetti che, oltretutto, hanno l’obiettivo di ‘salvarle’.

Molte volte il discorso della solidarietà stabilisce una dicotomia del ‘luogo’ delle migranti che contrappone la casa nel paese d’origine (che amano e sono state obbligate ad abbandonare) con l’Europa (che di certo non adorano ma dalla quale non vogliono essere rimpatriate). Le complesse relazioni che le migranti hanno con il loro luogo di origine, che può essere o non essere un luogo che desiderino visitare o tornare ad abitare, sono escluse dalle analisi che si fanno su di loro. E quando le prostitute migranti vengono definite come ‘trafficate’, si da per scontato che sono state strappate contro la loro volontà, permettendo che misure immediate di rimpatrio per niente sottili appaiano azioni benevole (ed essere caratterizzate da alcuni attivisti ironici come il ‘ri- traffico’)[7]. Vari teorici hanno segnalato come il lavoro delle migranti nella cura di bambini, anziani e malati crea ‘catene’ di amore e affetto che abbracciano le famiglia di origine, le famiglie presso le quali adesso lavorano e le loro nuove relazioni iniziate all’estero. Tuttavia, i teorici non concedono alle lavoratrici sessuali questa visione più affinata del ruolo del ‘luogo’ nella vita delle donne migranti.

Gli ambienti come luoghi di lavoro

Tutta questa teorizzazione rimane estranea alla situazione delle donne, che si sforzano di progredire e la cui relazione con i ‘luoghi’ è mediata in forma drammatica dall’industria nella quale lavorano, composta da una serie di ambienti. Una contadina di un paese del terzo mondo che emigra in Europa con i contatti giusti può arrivare a guadagnare 5.000 Euro o più al mese[8]. Questa cifra non è quello che guadagnano le cosiddette prostitute di ‘lusso’ che lavorano per clienti delle élite sociali (e che possono guadagnare molto più di tanto), ma è quello che si può guadagnare in piccoli o grandi attività le cui denominazioni e caratteristiche cambiano da paese e paese.

Con questa somma una migrante può restituire in maniera abbastanza rapida qualunque prestito ottenuto per emigrare e per guadagnarla lavora in club notturni, bordelli, appartamenti e bar multiculturali e multilingui. In questi luoghi si trova gente della Guinea equatoriale che persone provenienti da Brasile, Russia, Nigeria, Perù e Bulgaria. Tali ambienti costituiscono i luoghi di lavoro di coloro che vendono servizi sessuali e dette persone passano molte ore nel bar, conversando e bevendo, tra di loro e con i clienti, così come con altri lavoratori del settore, come cuochi, camerieri, cassieri e vigilanti. Nel caso degli appartamenti (‘pisos de contacto’ in Spagna), alcuni di quelli che lavorano vivono anche lì, mentre altri vengono solo per il loro turno. L’esperienza di passare la maggior parte del tempo in questi ambienti, quando la gente arriva ad adattarsi ad essi, produce soggetti cosmopoliti, che per definizione hanno una relazione speciale con il ‘luogo’. Il cosmopolita guarda al mondo, non alla casa e non c’è niente nel concetto del cosmopolita che gli impedisce di essere povero o lavorare nella prostituzione.

E’ facile trovare lavoratrici sessuali migranti che hanno lavorato in molte città europee: Torino, Amsterdam, Lione. Hanno conosciuto persone di decine di paesi e sono in grado di parlare varie lingue; sono orgogliose di aver appreso ad essere flessibili e tolleranti di fronte alle differenze della gente. Che parlino o meno del loro paese di origine con affetto, hanno superato il tipo di radicamento alla patria che li conduce all’esaltazione nazionalista e si sono integrati al gruppo di persone che possono arrivare ad essere la speranza del mondo, quelli che giudicano gli altri per le loro azioni e idee e non per l’apparenza fisica o il luogo di origine. Questa è la forza del cosmopolita.

Alcuni dubitano che ci possano essere relazioni di lavoro normali all’interno degli ambienti. Questo dubbio sembrerebbe concettualizzare tutti gli altri luoghi di lavoro come meno alienanti: uffici, consultori, fabbriche, servizio domestico, miniera, produzione per conto terzi, agricoltura, lavoro a cottimo, ecc. Però l’industria del sesso è immensa, include club, bar, discoteche e cabaret, linee telefoniche erotiche, sexy shop con cabine private, case di massaggio e saune, servizi di accompagnamento, alcune agenzie matrimoniali, appartamenti, cinema pornografici, ristoranti erotici, servizi di dominazone e sottomissione e la prostituzione di strada. In moti casi si tratta di impieghi part-time, sporadici o secondari e le condizioni lavorative di questi milioni di impieghi a livello mondiale variano enormemente e per tanto non si possono generalizzare in termini di ‘luogo’. Sebbene in questa industria è comune il ricambio di personale, lo è anche nell’industria cinematografica, in teatro, negli spettacoli e lavori d’ufficio temporanei, sia di amministrazione o informatica (dove nessuno dubita che esistono relazioni normali). Le relazioni con i colleghi possono o no trascendere le frontiere etniche, dipendendo dall’individuo; la possibilità che questo succeda è molto maggiore lì dove si concentrano persone di estrazione molto varia, senza nessuno predominanza. Questa è la situazione che si presenta negli ambienti, ora in tutta Europa che le migranti costituiscono il grosso delle prostitute, con una incidenza che arriva anche a superare l’80 % del totale in Italia (Tampep, 1999).

… e gli ambienti come zone di frontiera

Gli ambienti no sono soltanto multi-etnici ma anche zone di frontiera: luoghi di mescolanza, confusione e ambiguità, ove si dissolvono le ‘linee’ divisorie. Dal momento che molte delle prostitute migranti sono straniere, le lingue che si parlano negli ambienti. Gli spagnoli e francesi apprendono a comunicare con i nigeriani, i russi e gli albanesi. Allo stesso modo, i club notturni a volte sembrano locali di carnevale, un mondo al contrario ove la prostituta assomiglia al picaro, il semi foraneo che lascia il lavoro onesto per dedicarsi all’imbroglioneria, incarnando il ruolo di “cosmopolita e straniero.. sfruttando e perpetuando lo stato liminale del non essere né in uno né in un altro punto fisso di una sequenza di stato” (Turner, 1974: 232).

Gli ambienti sono luoghi di sperimentazione ed esibizione, ove alcuni rappresentano la maschilità e altri la femminilità. Ricerche realizzate in luoghi tanto lontani l’uno dall’altro come Tokyo e Milano dimostrano che per molti l’atto sessuale che si realizza alla fine di una notte di baldoria – o puttan tour – non è il centro dell’esperienza, la quale invece risiede nel condividere tra amici uomini un’esperienza che include conversare, bere, osservare, andare in auto, flirtare, fare commenti, consumare droghe e in generale essere ‘uomini’ (Allison, 1994; Leonini, 1999). Quando è in abiti da lavoro, la prostituta fa quello che le può far guadagnare più denaro; nel caso dei transessuali è una interpretazione esagerata della femminilità. Mentre un servizio sessuale contrattato non dura in generale più di 15 minuti, non solo le lavoratrici ma anche i clienti passano varie ore senza partecipare in attività sessuali.

Nell’istituzione patriarcale dell’industria del sesso, sono gli uomini quelli che hanno pubblicamente il ‘permesso’ di sperimentare con la loro maschilità e relazionarsi con gente con la quale non lo farebbero in qualunque altro luogo. La disponibilità delle donne migranti, uomini omosessuali e transessuali significa che tutti i giorni si sviluppano milioni di relazioni tra agenti di diverse culture. No si può giustificare l’essenzializzazione di queste relazioni come ‘atti’ indifferenziati sessuali e la loro eliminazione dalla considerazione culturale per il fatto che coinvolgono denaro[9]. Per quanti teorizzano il sesso come cultura, le pratiche sessuali sono costruite, trasmesse, trasformate e perfino globalizzate e le lavoratrici sessuali migranti si convertono in portatrici di conoscenze culturali[10].

Tutti concordano nel ritenere che l’industria del sesso esiste nel quadro si strutture patriarcali. Alcuni critici continueranno a lamentarsi delle perdite delle prostitute migranti e della loro quasi impossibilità di arrivare ad una organizzazione formale. Però bisogna riconoscere anche ciò che merita di essere riconosciuto, ossia l’abilità che dimostra la maggior parte delle donne migranti e dare loro la possibilità di superare un ruolo di vittime imposto, per diventare esseri che sperimentano piacere e soddisfazione in situazioni difficili e luoghi estranei.

Bibliografia

Agustín, L. Mª (2000) ‘Trabajar en la industria del sexo’, OFRIM Suplementos, No. 6, junio, Madrid, en

Allison, A. (1994) Nightwork: Sexuality, Pleasure and Corporate Masculinity in a Tokyo Hostess Club. Chicago: University of Chicago Press.

Appadurai, A. (1996) Modernity at Large. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Hefti, A.M. (1997) ‘Globalization and Migration’. Presentación en la conferencia ‘Responding to Globalization’, septiembre 19–21, Zurich.

Leonini, L. (ed.) (1999) Sesso in acquisito: Una ricerca sui clienti della prostituzione. Milán: Edizioni Unicopli.

Nielsen Netratings. (2001) en Ciberpaís (marzo) 9: 13. Barcelona.

Parker, R., R.M. Barbosa y P. Aggleton (2000) Framing the Sexual Subject: The Politics of Gender, Sexuality and Power . Berkeley: University of California Press.

Sibley, D. (1995) Geographies of Exclusion. Londres: Routledge.

Tampep (Transnational AIDS/STD Prevention Among Migrant Prostitutes in Europe Project). (1999) ‘Health, Migration and Sex Work: The Experience of Tampep’. Ámsterdam: Mr A de Graaf Stichting.

Turner, V. (1974) Dramas, Fields and Metaphors. Ithaca, NY: Cornell University Press.

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[1] La parola home in inglese contiene molti di questi riferimenti in una sola parola, ma in altre lingue non esistono parole che racchiudano un così ampio significato.

[2] Il servizio domestico ha molte delle stesse caratteristiche alienanti del lavoro nell’industria sessuale e entrambi sono realizzati simultaneamente da molte donne che cercano di guadagnare la maggior quantità di denaro possibile nel minor tempo.

[3] Come afferma una componente di Babaylan, un gruppo di collaboratrici domestiche migranti: “Non consideriamo la migrazione né come una degradazione né come un miglioramento. . . della situazione delle donne ma come una ristrutturazione delle relazioni di genere. Non c’è ragione per la quale questa ristrutturazione si debba esprimere attraverso una vita professionale. Si può dare attraverso l’asserzione dell’autonomia nella vita sociale, attraverso le relazioni con la famiglia d’origine o attraverso la partecipazione in reti e associazioni formali. La differenza tra i guadagni nel paese di origine e nel paese di immigrazione può creare già in sé stessa quell’autonomia, anche se il lavoro nel paese di destinazione è quello di domestica o prostituta.” (Hefti, 1997).

[4] L’affanno della polizia e delle autorità di immigrazione per ‘ripulire’ i luoghi di prostituzione o fermare le lavoratrici sessuali ‘prive di documenti’ variano da città a città in tutta Europa, cambiano tutti i giorni e, secondo la politica del momento, si dirigono alle lavoratrici dei club, della strada o dei locali. Sono poche quelle che non temono qualche misura della polizia.

[5] Non mi riferisco qui alle persone che sono soddisfatte del loro lavoro sessuale e vogliono che vengano loro riconosciuti i diritti come lavoratori. Alcuni di questi lavoratori sono organizzati e si dichiarano contro la criminalizzazione della prostituzione e a favore dei loro diritti.

[6] Si tenga presente che questi progetti sono di solidarietà con lavoratori sessuali e non conformati da lavoratrici sessuali.

[7] Il tardivo riconoscimento che questo tipo di argomentazioni appoggiano le politiche di immigrazione più conservatrici – quelle che propongono di chiudere le frontiere e di escludere i migranti – ha portato a promuovere varie proposte nazionali dirette a permettere alle persone trafficate di restare, che siano disposte o no a denunciare i loro sfruttatori.

[8] La sorpresa che può suscitare questa cifra dipende da come trattano il fenomeno i mezzi di comunicazione, che si concentrano quasi esclusivamente nella prostituzione di strada. La possibilità di guadagnare detta somma di denaro dipende da come si entra in tale mercato (per mezzi propri o di altri), dalla capacità di gestirsi al suo interno e di imparare ad amministrare grosse somme di denaro (un problema frequente proviene dall’alto grado di consumo che tende a annullare i guadagni). Lavorare un numero minore di ore al giorno o meno giorni o riposare tra i contratti riduce gli introiti.

[9] Il ‘luogo’ più recentemente abitato dalle lavoratrici sessuali migranti è il ‘cyberspazio’ che, come lo spazio cosmopolita, non ha frontiere. La stigmatizzazione delle prostitute e il desiderio di molti clienti di nascondere i loro desideri hanno del cyberspazio un luogo ideale per tutti quelli che ne sono coinvolti e, attraverso una rapida proliferazione di forme, si offrono e/o sono consumati servizi sessuali in sale di chat, bacheche virtuali, in pagine con immagini e suoni registrati, in avvisi diretti con numeri di telefono e via camere web, tanto in spettacoli individuali come in altri più ‘pubblici’. Qui le donne emergono come consumatrici, forse per via della scarsità di ‘luoghi’ di sesso anonimo, pubblico o commerciale disponibile per le donne. Uno studio realizzato in Europa ha mostrato che il 26% di coloro che visitano i siti web pornografici sono donne (Nielsen Netratings, 2001).

[10] “La contestualizzazione della sessualità all’interno dell’economia politica ha fatto emergere il fatto che le nozioni predominanti di sessualità, genere e desiderio sono alimentate da una mentalità colonialista che presuppone una rigidità transculturale e una uniformità di categoria sessuali, così come la persistenza delle frontiere geografiche e culturali imposti da accademici occidentali” (Parker et al, 2001: 9).

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