Le Immigrate Che Vendono Sesso Non Sono Vittime Ne Schiave

D : La Repubblica delle Donne, No 601, pag 75-78, 7 giugno 2008.

Rivista di La Repubblica, Roma.

Società

Provocazioni “LE IMMIGRATE CHE VENDONO SESSO NON SONO VITTIME Né SCHIAVE

di Barbara Placido

Foto di Karen Robinson

Si racconta che per anni la principessa Diana usciva di notte e in incognito si aggirava per le strade di Londra per regalare soldi alle prostitute. Perché, per quella notte almeno, tornassero a casa senza dover lavorare. Quando riferisco l’episodio all’autrice di Sex at the Margins: Migration, Labour Markets and the Rescue Industry (Zed Books), Laura María Agustín si mette a ridere e ammette che sì, Diana aveva capito meglio di tanti altri che cos’è che vogliono veramente le donne – per la maggior parte immigrate da Paesi in via di sviluppo – che ogni notte offrono sesso in cambio di soldi nelle strade delle nostre ricche metropoli. Vogliono guadagnare, e il più velocemente possibile. E doveva aver capito anche un’altra cosa: cos’è che queste donne non vogliono. Ossia: l’aiuto caritatevole di dame benpensanti, che le considerano alla stregua di povere vittime e che i soldi preferiscono darli alle istituzioni dedite a “salvarle”: il più delle volte rispedendole al loro Paese d’origine.

Basato su più di dieci anni di ricerca in America Latina, Europa e negli Stati Uniti, il volume Sex at the Margins sostiene una tesi che ha fatto rizzare i capelli a più di un’organizzazione che si occupa della tutela dei diritti umani: e cioè che la maggior parte delle donne straniere che si prostituiscono nei Paesi industrializzati non sono vittime di una fantomatica “tratta degli esseri umani”. In realtà hanno sempre saputo che per fare soldi all’estero sarebbero probabilmente finite a far parte (per un periodo almeno) del mercato del sesso. Come racconta una giovane nigeriana: “Quando ho lasciato il mio Paese per venire in Italia, lo sapevo benissimo che prostituendomi avrei guadagnato meglio. Non è un bel lavoro, certo. Ma sono orgogliosa del fatto che grazie a questi soldi i miei fratelli possono studiare e mia madre non ha di che preoccuparsi”.

“Con questo non voglio dire”, ci spiega Agustín, “che queste donne hanno attivamente scelto di diventare delle prostitute. Bensì che, considerate le altre opzioni, hanno preferito vendere sesso”. E per chi, come Agustín, ha potuto vedere da vicino quali sono le altre possibilità (lavorare 12 ore al giorno nei campi sottopagate, sottonutrite; essere sfruttate da una famiglia di cui si curano i figli e i genitori; e così via), prostituirsi, non è affatto la scelta peggiore. È indiscutibile. “Si, certo”, racconta una giovane donna, “sarei potuta rimanere in Albania, e lavorare per una delle tante imprese italiane che sono venute qui a sfruttarci. Qualche anno fa, quando sono partita, in una fabbrica di scarpe un operaio guadagnava 70 euro al mese. Una donna, la metà. Proprio non capisco come mai gli italiani si stupiscono tanto se noi albanesi veniamo per guadagnare di più e il più in fretta possibile. Una ragazza come me può prendere in una sera 400 euro e talvolta fino a 500. Sarei dovuta rimanere a casa e guadagnarne 70 al mese?”.

Agustín non nega che le donne si trovino così costrette a “vendere sesso”. Ma “la situazione è assai più complicata”. Nella maggior parte dei casi infatti non si considerano delle vittime e non si riconoscono nelle descrizioni che le varie organizzazioni (dalle Nazioni Unite al Consiglio d’Europa, a varie associazioni non governative) fanno di loro. Non si sentono né prede, né schiave, né succubi. Ma al contrario, indipendenti e autonome. “Sono venuta qui perché volevo essere più indipendente”, racconta un’altra donna nigeriana. “Vengo da una famiglia numerosa, ma non andavamo d’accordo. Volevo starmene per conto mio. Ho visto che i miei vicini se la passavano bene perché uno di loro era in Italia, e sono partita anch’io”.

Se il mito della “tratta degli esseri umani” persiste è perché a queste persone non viene dato ascolto. “Paradossalmente, a renderle mute e invisibili”, dice Agustín, “sono le stesse istituzioni che vorrebbero salvarle”. E che finiscono invece per marginalizzarle, condannarle e zittirle. C’è di più: con la scusa di proteggerle finiscono per agevolare e legittimare leggi che rendono sempre più difficile emigrare legalmente, che chiudono sempre più frontiere. Non nascondiamoci dietro un dito: sfruttamento, violenza, esperienze degradanti e terribili sono spesso parte dell’esperienza dell’emigrato: “Ma non accade solo quando c’è di mezzo il sesso”, dice Agustín. “Quando si è illegali, quando non si hanno i diritti fondamentali, essere sfruttati è la norma. Se si viene stuprate dal proprio datore di lavoro, che sia un magnaccia o il padre dei bambini di cui ci occupiamo, non c’è comunque nessuno cui chiedere aiuto”.

Ecco perché per molte di queste donne la prostituzione è un lavoro come un altro. E se la cosa ci scandalizza faremmo bene a porci la domanda: vendere sesso è davvero peggio che vendere l’amore materno? E non è proprio quel che accade quando noi, “cittadini dei Paesi ricchi, importiamo dal Terzo mondo l’amore materno, come un tempo importavamo rame, zinco e oro?”. Quando per l’appunto impieghiamo tate filippine, romene, bulgare, per occuparci dei nostri figli? A scapito, magari, dei loro figli, lasciati nel Paese natio e affidati alle cure di altri? La vendita di affetto non sembra scandalizzarci, mi fa notare Agustín, mentre quando la merce è il sesso subito insorge l’indignazione morale.

“Certo”, continua, “per i benestanti, che non si devono preoccupare di procurarsi da mangiare, di come pagare il medico, è facile sentirsi moralmente superiori. Loro non devono scegliere tra fare la domestica, senza tempo libero o vita privata, o la prostituta, che guadagna bene e ha anche tempo per stare coi propri figli, o leggere un libro”. Presupposti errati All'”indignazione morale” Agustín riserva le critiche più dure. Perché è proprio l’indignazione a motivare e giustificare quella che autrice definisce “l’industria del salvataggio”, ovvero, quell’insieme di individui e di organizzazioni dedite a “salvare” le prostitute. Secondo lei si tratta di un’industria che si basa su una serie di presupposti errati.

Il primo, che le donne emigrano esclusivamente per seguire i loro uomini, per tenere assieme la famiglia, e se una donna emigra da sola è subito vittima; mentre la verità è che sono molte le donne che ormai scelgono autonomamente di emigrare. Secondo: sì, è vero, chi emigra spesso si affida a intermediari per ottenere passaporti, visti, permessi di soggiorno, e questi “sciacalli” (e il loro numero è destinato a crescere con il restringersi delle frontiere) vogliono in cambio soldi. Ma è errato pensare che siano loro a obbligare le donne alla prostituzione. Come racconta una colombiana, che oggi vive in Spagna: “L’imbroglio sta solo nel debito – che è più difficile da ripagare di quanto ci avevano fatto credere. Non nel tipo di lavoro che uno finisce per fare”.

Molte battono per ripagare il debito: è il metodo più rapido. Ma “una volta pagato, sei libera”, dice un’altra donna sudamericana. La prostituzione è quindi spesso una scelta solo temporanea, un’identità transitoria. Per le organizzazioni dedite a “salvarle”, invece, la prostituzione definirà queste donne una volta e per sempre. Non solo perché, come sostiene l’autrice, “per noi occidentali, quello che ci definisce è il lavoro che facciamo”; ma anche perché solo quando queste donne sono classificate come prostitute, e quindi “vittime”, solo allora l'”industria del salvataggio” potrà arrogarsi il diritto di cambiarne le sorti. E cioè, di toglierle dal marciapiede mandandole a casa, anche quando molte di loro preferirebbero rimanere. E se non fosse vero? Sex at the Margins è un libro controverso, quasi sgradevole nel suo sollevare questioni che preferiremmo tacere.

Eppure, è stato accolto, nel mondo anglosassone, con grande interesse. Sembrerebbe quasi che molti giornalisti, antropologi e sociologi al leggerlo abbiano finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo e dire: qualcuno ha finalmente svelato quel che pensavamo da sempre. Che espressioni come la “tratta degli esseri umani” e la “nuova schiavitù” non descrivono la realtà in cui si muovono gli immigrati che lavorano nell’industria del sesso.

E se Agustín è stata tra le prime ad affermarlo, non sarà certo l’ultima: è uscito in questi giorni The Wisdom of Whores (Granta) di Elizabeth Pisani (vedi box), anche questo un libro nato da anni trascorsi dall’autrice a lavorare in organizzazioni governative, e non, tra persone che “vendono sesso”. E che lo fanno perché, sostiene Pisani, tra tutti i lavori possibili non è certo il peggiore. L’idea sta prendendo forza. Ma va analizzata con circospezione, ci dice Daniela Colombo, presidente di Aidos (Associazione italiana donne per lo sviluppo). “Purtroppo mi sembra che Agustín non distingua tra l’esercizio libero della prostituzione, su cui non c’è niente da obiettare (negli a nni 70 è nato un movimento delle prostitute per riaffermare il loro diritto a prostituirsi, con il quale le femministe sono state solidali) e il traffico per cui moltissime donne finiscono per prostituirsi non per loro volontà ma per consegnare il denaro guadagnato ai loro sfruttatori. Queste donne sono sottoposte a una serie di angherie spaventose e il più delle volte schiavizzate. Certamente il loro lavoro è il peggiore tra quelli degli immigrati anche clandestini”.

E a dircelo non sono degli esperti, ma queste stesse donne. Emanuela Moroli di differenza Donna ha raccolto molte testimonianze di donne provenienti dai Paesi dell’Est europeo che sono state indotte a venire in Italia con l’inganno di un lavoro professionale per poi ritrovarsi su un marciapiede. Viene da chiedersi se ignorare o attribuire poca importanza alle storie di queste donne non voglia dire peccare della stessa colpa di cui Agustín accusa l'”industria del salvataggio”: ossia quella di zittire le donne coinvolte nel mercato del sesso. Viene da domandarsi se la teoria di Sex at the Margins non si basi anch’essa, come “l’industria del salvataggio”, sui dei presupporti discutibili. Che viene voglia di discutere. Perché la prostituzione sarà, sì, per alcune donne una scelta autonoma e indipendente; ma le aiuta davvero a raggiungere l’autonomia e l’indipendenza economica e sociale, che tanto desiderano? Di tale eventualità questa inchiesta non ci offre alcuna prova; di queste donne, della loro vita privata, del loro passato, presente e futuro, sappiamo ben poco. E allora il dubbio rimane. Ma anche se fosse vero che riescono a comprarsi indipendenza ed economia vendendo il proprio corpo, non c’è proprio nulla da obiettare al fatto che su ogni osa (sperma, uteri in affitto e quant’altro) imperi la logica del mercato, la legge della domanda e dell’offerta? Come ha affermato l’antropologo Marc Augé, la prostituzione è “il vero volto dell’utilitarismo capitalista. E l’attuale tratta (degli esseri umani) è figlia della globalizzazione economica”. Che questo utilitarismo capitalista e questa globalizzazione economica stiano prendendo il sopravvento non c’è dubbio. Che abbiano colonizzato tutto, e tutti, anche chi si considera controcorrente, femminista, di sinistra, è, come minimo, deprimente. (Foto dell’agenzia Panos/Grazia Neri)

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